venerdì 30 marzo 2018

Dittature a tempo

Non vorrei sembrare irriverente, ma alla Settimana di Passione propriamente detta questa volta è corrisposta una settimana di passione democratica davvero profondissima che non soltanto ha messo in rilievo difetti ormai cronicizzati, ma che addirittura ha fatto capire che probabilmente siamo ancora ben lontani dall’aver toccato il fondo.

I conflitti a colpi di clava in questa specie di inedito “tutti contro tutti” stanno sminuzzando ulteriormente quel poco di distinguibile che era rimasto tra le macerie di un vivere democratico che, pur con tutti i suoi difetti, era riuscito a prendere per mano un’Italia distrutta dalla guerra e prostrata dalla dittatura e a portarla nel consesso delle prime nazioni del mondo, assicurando ai propri cittadini benessere e sicurezza sociale che si estrinsecavano soprattutto nel lavoro, nella sanità e nell’istruzione.Se dovessi sintetizzare al massimo il motivo di questa nostra crisi politica, direi che il problema risiede nel fatto che la stragrande maggioranza dei notabili dei nostri partiti considera la democrazia come una specie di “dittatura a tempo”: quando sei eletto fai quello che vuoi per cinque anni, senza che chi non è d’accordo si possa permettere di disturbare. Poi, se perdi le elezioni successive, la colpa è del popolo che non ha capito le “meraviglie” che hai combinato.

E tutto questo senza che nessuno si renda conto che la storia insegna che, prima o dopo, uno dei due termini di “dittatura a tempo” finisce per cambiare e che quasi sempre non si tratta del sostantivo iniziale, mentre invece tende a sparire il suo specificativo limitativo. Ma pensare così lontano è faticoso e fastidioso e, quindi, la “dittatura a termine” appare tanto comoda che merita sfruttarla senza darsi problemi; anzi, magari tentando di cambiare leggi elettorali e Costituzione pur di mantenerla. Lo pensano i vincitori; lo pensavano – e forse lo pensano ancora – gli sconfitti.

Il fascino del capo, più che subirlo, lo cercano tutti. Berlusconi è stato ed è maestro: un po’ per il carisma della ricchezza, un po’ per la fanfaluca che tutto quello che tocca diventa oro, un po’ perché dove queste due doti non arrivavano poteva arrivare il denaro. Al suo posto adesso è arrivato Salvini che, a prescindere dalla sua profonda aliofobia, sembra non essere così autocratico («Io – ha replicato a Di Maio – non dirò mai: “O io premier, o morte”») per poi specificare, però, che il premier non spetta ai 5stelle, ma alla coalizione del centrodestra e che a capo della coalizione, guarda caso, c’è lui.

In comune con Di Maio ha soltanto la drammatica frase: «Devo rispettare la volontà del popolo» (evidentemente ognuno parla di un popolo diverso), ma il capo dei 5stelle si sente più divinamente predestinato perché, intanto, si vanta di una finta democrazia digitale che, come dimostrano le cronache di questi giorni, è truffabile, o già truffata; poi è convinto che soltanto loro siano gli onesti e infine in quanto, grazie alla follia firmata da Rosato, può affermare tranquillamente che il 32 per cento del suo solo partito vale di più del 37 per cento della coalizione del centrodestra. La sua “estasi da vittoria” è tale che non si accorge che, dal punto di vista istituzionale, la Casellati fa fare addirittura bella figura a Romani. Ed è tanta la sua boria che si sente superiore anche al presidente della Repubblica pretendendo di fare lui le consultazioni prima che comincino quelle del Quirinale.

Sul leaderismo di Renzi non ci sarebbe da spendere più nemmeno mezza parola, visto che non solo ha fatto da ras del PD per molti anni, ma che anche oggi, dopo una sfilza incredibile di batoste, e dopo aver fatto dimezzare i voti del suo partito, pretende ancora di dettare legge, da teorico dimissionario, ma imponendo i propri fedelissimi come capigruppo e come vicepresidenti dei due rami del Parlamento e già avvertendo che anche sul nuovo segretario la decisione sarà sua. La domanda è semplice: perché il partito non si ribella? E la risposta è altrettanto lapalissiana: perché il partito non esiste più, visto che si è trasformato in un comitato elettorale nel quale i posti importanti sono saldamente presidiati da renziani.

Ed è sul PD che vorrei soffermarmi un momento di più, perché, nonostante tutto, continuo a sperare che si liberi di Renzi e dei suoi e che torni a guardare a sinistra, dove ancora non c’è una altro raggruppamento che abbia una massa tale de poter diventare centro di attrazione per gruppi minori.In questi giorni sono stati molti gli organi di informazione che hanno fatto inchieste e interviste sul perché il Pd sia stato abbandonato da tanti suoi elettori che hanno finito per votare Lega, o 5stelle, o starsene a casa. L’elenco di delusioni improntate a un comportamento certamente non di sinistra è lungo e circostanziato, oltre che non sorprendente. Gli elettori si sono allontanati dal PD a causa del Jobs Act che non ha aumentato il lavoro, bensì il precariato e la conseguente subordinazione dei lavoratori; delle ingiustizie della legge Fornero; dello svilimento nei confronti dei non più giovani, evidente nella parola “rottamazione”; del disprezzo per l’istruzione e la cultura con una legge che solo con grande ironia ha potuto essere chiamata della “Buona scuola”; della presa in giro sul lavoro per i giovani con trovate di contratti e di stage che hanno l’unico scopo di procrastinare il momento della disoccupazione ufficiale; della trasformazione degli organismi della sanità in aziende che devono fare soprattutto utili; della follia di evitare il contatto diretto con i cittadini per parlare, invece, soltanto con tweet e apparizioni televisive; della decisione di soccorrere le banche truffatrici e di trascurare i correntisti truffati; dell’assoluta sordità a qualunque disaccordo interno e a ogni suggerimento; di una politica fiscale che spesso ha trattato i ricchi meglio dei poveri; di una totale assenza di idee sulle migrazioni, salvo poi inseguire concetti di pura esclusione con il ministro Minniti; dell’incapacità di aggregare su temi importanti e della facilità di risultare divisivi davanti ad ambizioni personali. E si potrebbe andare avanti ancora a lungo.

Ed è proprio per evitare queste realtà che molti che avevano votato PD: per scongiurare la possibilità che arrivassero “i barbari” a distruggere il delicato edificio dei diritti sociali faticosamente costruito, poi si sono accorti che avevano “i barbari” già in casa e si sono affrettati a cambiare indirizzo. Più per rancore verso chi ha tradito gli ideali di partenza, che per fiducia nei confronti dei nuovi.

E fa sorridere amaramente vedere che, dopo il terribile insuccesso del 4 marzo, molti che hanno contribuito a distruggere il partito cardine del centrosinistra, oggi criticano le proprie stesse azioni e parlano di “discontinuità”, come se per realizzare la discontinuità potesse bastare cambiare un renziano A con un renziano B.

E ancora più amaro è sentire con quale artefatta serietà alcuni sedicenti “politici” mettono a confronto i diritti sociali con quelli personali, ipotizzando che, se si favoriscono i secondi, occorre rassegnarsi a perdere qualcosa sui primi. Senza rendersi conto che i diritti, o sono tali e per tutti, o sono soltanto privilegi. Senza capire che, al di là dell’assurdità dell’idea del baratto tra diritti, non esiste alcuna motivazione per uno scambio che favorisca una categoria rispetto a un’altra; nemmeno quella della quantità di persone che sarebbero coinvolte. Sarebbe come se nella sanità si decidesse di non curare più le malattie poco frequenti per convogliare tutti i finanziamenti solo nella lotta contro quelle più diffuse. E quei malati non hanno diritto di vivere? Potevano essere di più, sarebbe l’assurda risposta.

Considerando che Liberi e Uguali non ha saputo raccogliere gli scontenti e i delusi, è il caso di rassegnarsi? Assolutamente no: occorre, invece, sforzarsi di creare qualcosa di nuovo, pur se con le radici saldamente affondate nelle convinzioni democratiche e nelle ambizioni sociali espresse nella Costituzione della nostra Repubblica. Mettendo da parte le ambizioni personali per curare gli obbiettivi collettivi. Riprendendo a parlare “con” la gente, e non “alla” gente. Ponendosi faccia a faccia non esclusivamente con gli amici, ma soprattutto con chi è critico. Ricordando che i diritti vanno non soltanto rispettati, ma anche riconquistati giorno per giorno.

E, soprattutto che una qualsiasi “dittatura a tempo”, anche se malamente mascherata con la parola “governabilità”, è già la negazione della democrazia.

Buona Pasqua a tutti.

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