mercoledì 21 febbraio 2018

Amore ferito

Mercoledì 14 febbraio, contemporaneamente ricorrenza di San Valentino e giornata delle ceneri, la presidentessa del Lions Club Udine Castello, Alma Maraghini Berni, mi ha invitato a tenere una lunga conversazione sul tema “Amore ferito”. Ve la propongo. 


Quando la vostra presidentessa mi ha indicato l’Amore ferito” come tema per la chiacchierata della serata di San Valentino, mi sono reso conto che di affrontare questo argomento mi è capitato soltanto occasionalmente, e abbastanza di sfuggita pur nel mio quasi mezzo secolo di professione, e, quindi, ho provato ad avvicinarmici gradatamente, cercando punti di vista per me inconsueti e stando attento a non infarcire la serata di luoghi comuni, o di considerazioni prettamente personali. Ma soprattutto ponendomi l’obbiettivo di rispondere a due domande. La violenza nasce soltanto da rapporti di forza, fisica o psicologica che sia, squilibrati? E, ancora più importante, stiamo sempre parlando di amore?

Vi chiedo, quindi, di accompagnarmi con pazienza in questo percorso la cui prima tappa è costituita da una curiosità da soddisfare: chi era San Valentino che, tra l’altro, è anche protettore degli epilettici ed è capace – giurano a Chiasiellis e a Zoppola – di scongiurare grandine e tempeste durante i temporali. Ma a noi interessa soltanto perché è diventato patrono degli innamorati. Vissuto nel II secolo, divenne vescovo a soli 21 anni e poi morì martire per decapitazione, dopo l’immancabile tortura, vicino al ponte Milvio. Secondo alcune fonti Valentino sarebbe stato giustiziato perché aveva celebrato il matrimonio tra una giovane cristiana e un legionario romano pagano: la cerimonia avvenne in fretta, perché la giovane era malata, e i due sposi morirono, insieme, proprio mentre Valentino li benediceva. E questa è la prima versione, non propriamente consolante, del perché San Valentino sia legato agli innamorati.

Però ci sono anche racconti più romantici. In uno il vescovo, passeggiando, vide due giovani che stavano litigando e andò loro incontro porgendo una rosa e invitandoli a tenerla unita nelle loro mani: i giovani si allontanarono non solo riconciliati, ma addirittura innamorati, mentre numerose coppie di piccioni – piccioncini, appunto – svolazzavano loro intorno scambiandosi sfioramenti e beccatine d’affetto. In un altro il santo avrebbe donato a una fanciulla povera una somma di denaro necessaria come dote per il suo sposalizio, evitando che la ragazza, priva di sostanze, rischiasse la perdizione.

La realtà, però, è probabilmente molto meno romantica. Le origini di questa festa, infatti, potrebbero risalire al IV secolo, quando fu introdotta per sostituire e far dimenticare la festa dei Lupercalia, gli antichi riti pagani dedicati al fauno Luperco, protettore della fertilità, che si celebravano il 15 febbraio e prevedevano festeggiamenti sfrenati, in aperto e netto contrasto con la morale e l’idea di amore dei cristiani. In particolare, il clou della festa si aveva quando le matrone romane si offrivano, spontaneamente e per strada, a gruppi di giovani che scorrazzavano nudi. Anche le donne in attesa si sottoponevano volentieri al rituale, convinte che avrebbe fatto bene alla nascita del futuro pargolo. Per creare la festa di un amore molto diverso, papa Gelasio I, nel 496, decise di spostarla al giorno precedente, già dedicato a San Valentino, facendolo così diventare automaticamente il protettore degli innamorati.

Comunque della giornata di San Valentino si parla da moli secoli. Nel 1601 Shakespeare, nell’Amleto”, durante la scena della pazzia di Ofelia, fa cantare la fanciulla vaneggiante: «Domani è san Valentino e, appena sul far del giorno, io che son fanciulla busserò alla tua finestra; voglio essere la tua Valentina». Ma risale addirittura a circa tre secoli prima un manoscritto in cui l’inglese Geoffrey Chaucer raccontava come nel giorno di San Valentino gli uccellini iniziassero le loro danze d’amore. A Parigi, il 14 febbraio 1400, fu fondato l’Alto Tribunale dell’Amore, un’istituzione ispirata ai principi dell’amor cortese che aveva lo scopo di decidere su controversie legate ai contratti d’amore, ai tradimenti, e – già quella volta – alla violenza contro le donne. Curioso il fatto che i giudici erano selezionati sulla base della loro familiarità con la poesia d’amore. E la più antica “valentina” di cui sia rimasta traccia fu scritta da Carlo d’Orléans, all’epoca detenuto nella Torre di Londra dopo la sconfitta alla battaglia di Agincourt nel 1415. Carlo si rivolgeva a sua moglie, Bonne di Armagnac, con le parole: «Anche qui io sono preda dell’amore, mia dolcissima Valentina».

Non possiamo, però, dimenticare che oggi è anche il mercoledì delle ceneri, il giorno in cui comincia la Quaresina che ci porterà a quel Giovedì Santo che, in qualche modo, ci ricollega, anch’esso, al titolo della serata – “Amore ferito” – perché nulla può ferire un amore, di qualsiasi genere sia, più di un tradimento; proprio come quello compiuto da Giuda il giovedì.

A questo punto, appoggiandoci al concetto di tradimento, potrebbe apparire naturale inoltrarsi nello sterminato campo dei problemi psicologici ed etici che sono il brodo di cultura nel quale prosperano quelle violenze sulle donne e quei femminicidi che quotidianamente rattristano le nostre cronache.

Ma, prima di entrare nel rapporto tra violenza e amore, credo sia necessario dare una dimensione un po’ più definita al fenomeno delle prepotenze sulle donne, anche se va rilevato che in molti casi il rapporto con l’amore non esiste nemmeno a scopo di presunta giustificazione. È proprio di ieri un rapporto Istat nel quale si sottolinea che si stima, ma ovviamente per grande difetto causato dalla vergogna a denunciare, e anche soltanto a confidarsi, che siano quasi 9 milioni, circa il 44 per cento, le donne fra i 14 e i 65 anni che nel corso della vita abbiano subito una qualche forma di molestia sessuale e che siano oltre 3 milioni quelle che le hanno subite negli ultimi tre anni. Non solo: nel corso della vita più di un milione e 173 mila donne sono state vittime di ricatti sessuali sul luogo di lavoro per essere assunte, per mantenere il posto, o per ottenere progressi di carriera. E stupisce, ma solo a prima vista, che la maggior parte di questi fatti sia accaduta nel settore delle attività professionali, scientifiche e tecniche, seguite da quello del lavoro domestico. Tra l’altro, se nel loro insieme i dati sulle molestie sulle donne negli ultimi anni risultano in diminuzione, sono invece stabili i ricatti sessuali sul lavoro.

Quindi, prima di soffermarci su problemi psicologici ed etici, mi appare necessario un passaggio di tipo educazionale che si riferisce a qualcosa di ben più materiale della psicologia e dell’etica e che può essere completamente estraneo a qualsivoglia implicazione sentimentale. E mi riferisco al corpo.

A nessuno sfugge che qualunque nostra fotografia non ci mostra in maniera completa e assoluta, ma soltanto come siamo in quel determinato momento; e sappiamo bene che, a meno di eventi traumatici, nessuno si accorgerà del cambiamento sopravvenuto anche soltanto un giorno dopo; ma siamo ben consci che quel cambiamento inevitabilmente ci sarà stato, in quanto ogni contatto con l’esterno ci trasforma perché il corpo, anche se questo può apparire sorprendente, non è un’entità finita, né definita. E quello che vale per il corpo, vale anche per la mente e per il cuore.

Ma forse ancora più stravolgente, se guardiamo al corpo pensando alla realtà della società in cui viviamo, alle sue leggi scritte e non scritte, è il fatto che ci rendiamo conto che noi non siamo gli esclusivi padroni del nostro corpo.

E partiamo proprio dall’effettiva titolarità del nostro corpo domandandoci cos’altro è la violenza sulle donne, sui bambini, sui malati, sugli handicappati, sui deboli in genere, se non l’impadronirsi del corpo di un altro? E di cos’altro parliamo, se non di questo, quando ci dobbiamo confrontare con il ritorno della cultura della violenza e della tortura nelle istituzioni del nostro Paese? Sono ragionamenti spinosi, e probabilmente divisivi, ma che, a prescindere da come una la pensi, non possono essere sottaciuti. Pensiamo alla giustizia fai da te vista in questi giorni, ma anche, per esempio, alla Diaz di Genova, o a Cucchi morto martoriato mentre era in custodia cautelare. E non perché sia lecita la violenza – diciamo così – privata, ma perché mentre quella suscita inequivocabile riprovazione, quella praticata delle istituzioni rischia, pur se in limitate circostanze, di far passare il messaggio di una sua presunta liceità.

Soffermiamoci anche a riflettere sul fatto che a suo tempo il corpo di Eluana Englaro e quello di Piergiorgio Welby sono diventati campi di battaglia su cui, a prescindere dalle rispettive posizioni, si sono affrontati, spesso disinteressandosi della volontà dei diretti interessati e dei loro familiari, politica, Chiesa, scienza medica, gruppi di pressione di vario tipo. E realizziamo anche che sono sempre piccoli e inessenziali particolari del corpo, come il colore della pelle, il taglio degli occhi, o il tipo di capelli, che portano alle discriminazioni, ai respingimenti, alle moderne schiavitù, al sempiterno razzismo.

Il corpo, insomma, è un elemento centrale della discussione pubblica e i vari orientamenti politici e sociali derivano soprattutto da due modi principali di interpretare la vita: il primo ne considera preminente la sacralità perché ritiene che la vita discenda da Dio e che, quindi, non sia disponibile da parte del soggetto che la riceve in dono, né, ovviamente, da parte di altri; il secondo, invece, antepone a tutto la libertà in quanto ritiene che la vita emerga, diciamo così, dal basso e che, quindi, sia totalmente disponibile da parte di chi la riceve in sorte.

Ed è proprio su questi scivolosi argomenti che la società ha sempre mostrato il massimo dell’ipocrisia. Non entriamo in considerazioni etiche, ma se c’è davvero tanto rispetto per il corpo da opporsi, anche con la forza, a decisioni individuali come il suicidio, o il lasciarsi morire per mantenere intatta la propria dignità, perché questo rispetto scompare del tutto davanti a cose molto simili, ma decise dall’alto come le guerre, gli sfruttamenti, le discriminazioni? Viene quasi il dubbio che il disegno più importante sia proprio il fatto che la vita e il corpo non restino nelle mani di coloro cui quel corpo davvero appartiene, ma che passino nelle disponibilità di chi detiene il potere.

Credo, insomma, che non potremmo capire bene il rapporto tra corpo e società, e, per quello che questa sera ci interessa, tra amore e violenza, se trascurassimo inizialmente il fatto che il nostro involucro di pelle, carne e ossa è anche oggetto di una continua rappresentazione e manipolazione che ha fatto sì che il corpo, per definizione sede dell’umano, oggi sembri essere diventato una specie di luogo di transizione che spossessa il corpo stesso dal suo reale padrone.

Culture e religioni spesso hanno vietato la rappresentazione del corpo umano, o l’hanno manipolato e cambiato. Pensiamo ad antiche pratiche corporee di tipo sacrale, come la circoncisione e l’infibulazione. Pensiamo alle mostrificazioni tribali di orecchie, nasi, colli e corpi, a deformità varie, tra l’altro quasi sempre non accessibili a tutti, ma usate per segnalare cariche particolari, potere, ruoli sociali, rapporti privilegiati con il sacro. Nella modernità li abbiamo sostituiti con elementi come paramenti sacri, o corone, gradi sulle maniche, o fregi sui cappelli, perché comunque il corpo, con le sue appendici, resta un immediato strumento di identificazione di una persona con un sistema di segni e informazioni.

Ma oltre che per il potere e per la sacralità, il corpo viene manipolato per funzioni culturali. Ricordiamo i piedi deformati delle donne cinesi, o i colli allungati, le labbra, le narici, le orecchie allargate di alcune tribù, le perforazioni e le scarificazioni. O, per venire ai giorni nostri, pensiamo ai tatuaggi e ai piercing che sono strumenti per far vedere agli altri il modo in cui si vuole essere percepiti. Pensate al trucco delle donne, cosa normale e comunissima, che vuole far passare un’immagine di corpo che è diversa, poco o tanto che sia, da quella reale, quasi sempre per scopi di attrazione. E la stessa cosa, anche se in forme un po’ diverse, accade anche per gli uomini.

Facciamo ancora un passo in avanti e pensiamo alla pubblicità martellante che fra un po’ vorrà ricordare a tutti che torna l’estate, che l’estate è spiaggia, che spiaggia vuol dire esposizione del proprio corpo e che, quindi, si postula l’obbligo di prepararlo attentamente a questa particolare forma di comunicazione. E lo si fa con diete e ginnastiche tonificanti. Ma certi arrivano addirittura alla chirurgia plastica. L’amore, per altri o per se stessi, resta sempre sullo sfondo, ma siamo proprio sicuri che non sia, magari gravemente, già ferito?

Comunque, anche se non sono pochi coloro che tentano di riappropriarsi del proprio corpo in maniere diverse da quelle del passato, alcuni cedono il possesso del proprio corpo alle regole imposte dalle tradizioni, dalle mode e dal mercato. E, se passa il concetto che io accetto di non essere più padrone del mio corpo, contemporaneamente non può non passare anche l’idea che qualcuno pensi di poter impadronirsi di quei corpi che sono ormai senza padrone.

E in più, pur se extracorporei, si sono aggiunti anche altri aspetti che possono mettere in crisi la reale proprietà del proprio corpo. Perché lo spossessamento di se stessi può continuare con l’aumento del controllo da parte di altri, conosciuti o non conosciuti che siano; un aumento di controllo che coincide con una cessione di autonomia e, quindi, di libertà.

Pensate soltanto a schiavitù tecnologiche che a prima vista non appaiono tali, ma che sono molto efficaci, come per esempio il cellulare che è tracciabile anche da spento, che è diventato una vera protesi corporea e che , oltre a localizzare in ogni momento il nostro corpo, fornisce una massa impressionante di informazioni che riguardano tutto l’insieme delle nostre relazioni personali, sociali, economiche e le nostre opinioni perché non soltanto mette in evidenza se si telefona a un partito, o a un altro, alla parrocchia, alla sinagoga, o alla moschea, ma fa anche registrare tutto quello che diciamo.

Ogni giorno in Italia si scambiano più di 300 milioni tra sms e telefonate e tutto – anche i più intimi sussurri d’amore – viene trattenuto e registrato. Questo, si dirà, riguarda esclusivamente le forze dell’ordine, ma è vero solo in parte perché non soltanto ci sono dei programmi che permettono, non troppo legalmente, anche ai privati di accedere a dati teoricamente coperti da privacy. Ma non basta, perché moltissimi fanno a gara a pubblicizzare volontariamente tutto quello che sono e tutto quello che fanno sui cosiddetti social, senza rendersi conto che in internet la parola “amicizia”, ha un significato profondamente diverso da quello della vita reale dove, comunque, è già abbondantemente inflazionato. Quindi in questa maniera quasi ci sdoppiamo: il nostro corpo elettronico si separa da quello fisico e non è più un’entità finita e definita perché finisce per esistere anche un corpo virtuale ed elettronico che non può non falsare la nostra immagine reale; che non ci consente di essere valutati in tutta la nostra capacità e complessità. E che può portare a situazioni di grande pericolo.

A tale proposito, tornando ai dati Istat, si evince che il 6,8% delle donne ha avuto proposte inappropriate o commenti osceni o maligni sul proprio conto attraverso i social network e all'1,5% è capitato che qualcuno si sia sostituito per inviare messaggi imbarazzanti, o minacciosi, od offensivi ad altre persone.

Insomma, non ci sono più soltanto le superiorità di forza fisica, di censo, di potere sociale a determinare il sopruso da parte del più forte, ma oggi a creare quella differenza che permette, se non induce, la violenza si sono aggiunte delle cause che annichiliscono e disumanizzano ulteriormente il più debole.

E veniamo alla seconda domanda: se parliamo di “amore ferito”, stiamo sempre parlando di amore? A prima vista la risposta dovrebbe essere un ben no, tondo ed esplicito. Magari accompagnandola con la parafrasi di una famosa frase di Jean-Jacques Rousseau che diceva che «di tutti gli attributi di una divinità onnipotente, la bontà è quello senza il quale non la si potrebbe neppure concepire». Sul nostro argomento potremmo affermare, invece, che «di tutti gli attributi di un amore, la violenza è quello che sicuramente ne negherebbe l’esistenza».

Ma ovviamente il discorso non è così semplice perché l’amore non soltanto è un sentimento estremamente complesso, ma anche in quanto sembra che nei secoli si sia fatto a gara per mistificarlo e travisarlo. Magari con alti intenti. Magari da parte di personaggi al di sopra di ogni sospetto.

Prendiamo Dante, per esempio. Chi non ricorda il verso «Amor, ch’a nullo amato amar perdona»? Siamo nel V canto dell’Inferno della “Divina Commedia”, e Virgilio ha portato Dante davanti a Francesca da Rimini e a Paolo Malatesta. Merita, anzi, ricordare interamente le due terzine che ci interessano e i due versi successivi: «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, / prese costui de la bella persona / che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende. / Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona / Amor condusse noi ad una morte. / Caina attende chi a vita ci spense».

La storia è quella di Francesca, amante di Paolo, e sposata con il fratello di lui, Gianciotto che scopre il tradimento e li uccide entrambi. Dante, insomma, parla di un femminicidio e di un fratricidio; eppure per lui a dominare su tutto è il concetto di amore, tanto che, in forma sostantivale o verbale, lo usa ben cinque volte di cui tre addirittura nello stesso verso. Ma qual è il vero amore: quello passionale che – dice lui – non consente a una persona che sia davvero amata di non ricambiare il sentimento, oppure quello consacrato dal sacramento del matrimonio che non consente di amare nessun altro? Non c’è, poi, una contraddizione in termini in quel «amor ch’a nullo amato amar perdona», che diventa assurdo se uno è amato contemporaneamente da due, o più, persone diverse? Ed è davvero possibile che un tradimento porti allo stesso posto – l’Inferno – di un omicidio? Se davvero esiste un aldilà e se davvero ci dovesse essere un sistema premiale e punitivo per ciò che si è fatto in vita, è mai possibile che Dio, nella sua onnipotenza e, quindi, nella sua infinita saggezza, incaselli tutto in due uniche categorie finali: innocenti e colpevoli? Perché, al di là del fatto che tutti noi sappiamo bene di avere tanti grigi, si ha un bel dire che fuoco, ghiaccio o escrementi sono cose ben diverse; ma passarvi immersi l’intera eternità rende praticamente identica la pena.

Sono domande che richiedono una risposta impossibile, più che difficile; e, infatti, anche il povero Dante non sa che dire; sa soltanto che prova così tanta pietà per i due spiriti che ha davanti da perdere i sensi: «…sì che di pietade / io venni men così com’io morisse. / E caddi come corpo morto cade».

Ma se vogliamo riallargare i confini dell’amore e abbandonare le contraddizioni indotte dal cristianesimo, ci conviene retrocedere nel tempo fino a imbatterci nella distaccata concretezza greca. Platone, nel “Simposio”, dice che l’amore è un’espressione della follia, e spiega che noi siamo fatti di una parte ragionevole e una folle e che alla nostra parte folle possiamo accedere soltanto con una forma di conoscenza non razionale perché la ragione è impotente a capire la follia. Possiamo arrivarci – dice – attraverso l’erotica, che poi è la stessa strada che porta una madre a capire i bisogni di un neonato che non parla: lo comprende attraverso mediazioni di un amore che è “atopia”, che si colloca fuori dal luogo della ragione e che è figlio di povertà, trasgredendo la tradizione greca che lo faceva figlio di Afrodite, Venere per i latini, dea della sessualità, e di Ares, Marte, dio dell’aggressività. Platone sostiene che l’amore è figlio di povertà perché è una dimensione di quel desiderio che, in definitiva, è sintomo di mancanza e che, quindi, produce una tensione verso l’altro che fa scoprire dell’altro un’infinità di cose che, senza quella tensione desiderante, non avvertiremmo neppure lontanamente. Quindi, nel momento della nostra irrazionalità amorosa, possiamo diventare più capaci di capire l’irrazionalità nostra e altrui; diventiamo cioè più razionali anche rispetto a un mondo irrazionale. Con l’amore posso entrare nella mia follia e posso esprimerla. E, del resto, riferendosi all’amore, comunemente si dice «Ho perso la testa», o «Mi fai impazzire».

E Platone arriva anche a dire che l’amore è assolutamente lontano da qualunque vizioso concetto di possesso dell’altro; quindi da ogni aggressività e da ogni violenza. Anzi dal dialogo del filosofo greco si desume che ogni gesto d’amore è un tentativo di ricomposizione. E, a tale proposito, l’etimologia ci viene, premurosa, in aiuto. La parola “sesso”, infatti, deriva dalla parola “nesso”, che significa connessione. E non è senza importanza che in tutte le lingue indoeuropee la radice “nek” abbia a che fare con la parola “conoscenza”. Del resto anche la Bibbia, quando vuol indicare che due fanno l’amore, dice che si sono conosciuti. Conosciuti “biblicamente”, diciamo noi, appunto.

Insomma, da qualunque parte lo guardiamo, anche da quello della follia, l’amore è la negazione della violenza. Ma, allora, se in Italia ogni anno in numero dei femminicidi è superiore a 140 (quasi uno ogni due giorni) e se quello delle violenze domestiche è talmente elevato da sfuggire a qualsiasi tentativo di darne una dimensione numerica, anche soltanto per gli episodi denunciati che sono soltanto la punta dell’iceberg di un fenomeno enormemente più diffuso, il tutto deve forse essere associato a una grande varietà di mancanze, diciamo così, etiche? È possibile che tutto dipenda da un momento storico in cui dominano l’edonismo, la ricerca di divertimento e di svago a prescindere dalle conseguenze per sé e per gli altri; in cui dilaga una superficialità legata a un presente cannibale, che non è in grado di pensare strategicamente al futuro e che deliberatamente preferisce non conoscere e comunque non considerare il passato?

Non ci sono dubbi sul fatto che nell’amore ci sia sicuramente bisogno di etica e che, dunque, non abbia fondamento quella cultura, per certi versi dominante, che sostiene che al cuore non si comanda e che, quindi, nell’amore non ci possano, né debbano, esistere obblighi di tipo morale. Altrimenti, tra i tanti limiti che vengono soppressi, c’è anche quello che impedisce gli sconfinamenti nel possesso e nella violenza.

Ma approfondiamo ancora il nostro tema e, non sottovalutando il fatto che ogni volta in cui diciamo «Ti amo», a ben guardare, puntiamo a tranquillizzare non soltanto l’oggetto del nostro amore, ma anche noi stessi, andiamo a scandagliare alcuni aspetti dell’amore: quelli che, forse, possono riuscire a spiegare tanti eccessi praticati tentando di nascondersi indegnamente dietro il suo nome. Mentre, come scriveva Ungaretti, «Il vero amore è una quiete accesa».

Prendiamo la passione, per esempio, sulla quale a Illegio fino a pochi mesi fa era aperta una mostra intitolata “Amanti. Passioni umane e divine. Cos’e? l’amore?”, sulla quale recentemente sono venuti a parlare in sala Ajace, chiamati dalla vostra presidentessa, i due organizzatori, monsignor Angelo Zanello e don Alessio Geretti. In una visione artistica e non esclusivamente ecclesiastica, la mostra ha voluto sottolineare che saper amare e saper vivere sono la stessa cosa e che tutti i cicli narrativi su cui si basa la nostra civiltà testimoniano che è proprio l’essenza dell’amore a dare consistenza alla nostra vita, trascinandola attraverso storie struggenti e sublimi, mitiche e reali, sensuali e spirituali, tenere e torbide, romantiche e violente. E in tutte, pur traguardate attraverso una visione religiosa e sacrale, non può non emergere un giudizio sulla qualità di questo amore che, puntando a un sentimento più forte della morte, respinge proprio quella violenza che della morte, intesa come dissoluzione, è prodromo.

Guardandola da un punto di vista schiettamente laico, invece, le cose cambiano un po’. Umberto Galimberti, con quel suo rigoroso gusto per l’apparentemente paradossale, afferma che «Non conosciamo più la passione perché l’abbiamo affogata nel sesso che, nel corpo a corpo, annulla la distanza di cui la passione si alimenta. Finché la generazione non si stancherà del sesso – dice – sarà difficile reperire passioni in quella forma eroica e sublime che l’età romantica conobbe e seppe distinguere dall’amore». Ma lo dice quasi con scettico sollievo, in quanto, continua, «A differenza dell’amore, la passione non ubbidisce a regole, ignora il governo di sé, risponde a un’attrazione violenta che non conosce il limite, non si alimenta di progetti e costruzioni, ma cammina nelle prossimità del sacrificio di sé, sino a fiancheggiare la morte, perché, in preda alla passione, indiscernibile diventa il confine tra la forza del desiderio che trascina e la morte che chiama».

E la passione può continuare la sua creazione fantastica soltanto se ad alimentarla sono il dubbio e l’incertezza. Però, sciolta dalla realtà, inevitabilmente la passione può farsi inquieta, esponendosi al gioco dell’illusione e della delusione, e nutrendosi di speranze insoddisfatte. Talvolta questo continuo procedere sul filo del rasoio fa perdere il controllo di sé, in una situazione che non conosce mediazioni, né adeguamenti, ma quasi soltanto irriducibilità e sofferenza del non possesso, e che può portare gli amanti a una condizione in cui diventano alieni a se stessi, e anche stranieri l’uno per l’altro.

È la passione, insomma, la causa di tante ferite, di tanti lutti e sofferenze? È qualcosa da evitare, o addirittura proibire come vogliono fare la maggior parte delle religioni? Non è detto; in quanto, se la passione riesce a evitare il proprio suicidio, allora quell’amalgama di immaginazione e di emozione che scatena è la prima forza che consente a ciascuno di prefigurare una felicità al di là della pigra rassegnazione, di costruirsi una visione del mondo più luminosa di quella offerta dall’opacità del reale. E pensiamo a cosa sarebbe il mondo se nessuno ne avesse sognato uno migliore, se nessuno fosse stato disposto a sopportare umiliazioni e dolore perché accadesse qualcosa di meglio rispetto agli scenari che la prudenza della ragione e il calcolo del realismo prefigurano per una teorica sicurezza che cancella ogni utopia. George Bernhard Shaw disse: «L’uomo ragionevole si adatta al mondo; l’irragionevole insiste nel tentare di adattare il mondo a sé. Quindi, ogni progresso dipende dall’uomo irragionevole».

Ho già citato più volte il concetto di possesso che tende a instaurarsi quando la passione non approda all’immedesimazione con la persona amata e che, come ho detto parlando del corpo, porta a credere che il corpo dell’amata, o dell’amato, non sia più nella disponibilità del suo vero e unico proprietario.
Ma il processo di espropriazione continua a convivere con quello di riappropriazione dando vita a un conflitto complesso e aperto che va seguito con attenzione e che, per non sfociare in esiti drammatici, va collocato nel sistema dei nostri valori etici, sociali e culturali. Il possesso, comunque, riduce alla persona amata le possibilità di relazioni, fino a sacrificarla nello spazio ristretto in cui l’assillo dell’amante la imprigiona. In questo assedio, a essere sacrificata non è soltanto la persona amata, ma anche l’amante che, a sua volta, riduce le sue relazioni con il resto del mondo e il significato della propria esistenza al puro e semplice possesso dell’amato con estremizzazioni che possono investire anche il campo dei rapporti di forza e portare, appunto, alla violenza.

Poi, prima o dopo, se non causa danni, la brama di possesso cessa, ma soltanto perché si estingue la passione a lei legata che, in realtà non era amore per l’altro, ma perverso amore di sé. Però normalmente non scompare quella gelosia che praticamente tutti abbiamo provato e che non è, pur essa, un segno d’amore, ma quasi sempre una specie di bisogno di tirannia che, se non è subito individuato come tale, diventa difficilissimo da estirpare anche perché è un tormento che attorciglia l’anima e finisce per alterare la percezione, l’attenzione, la memoria, il pensiero e il comportamento.

Shakespeare, nell’“Otello”, fa dire a Emilia: «Per i gelosi non c’è una cagione: son gelosi perché sono gelosi, e tanto basta. La gelosia è un mostro che si genera da sé, è figlia di se stessa». E Jago rincara: «Guardatevi, signore, dalla gelosia: è il mostro dagli occhi verdi che irride al cibo di cui si nutre». Alcuni sociologi sostengono che in origine la gelosia non era un evento connesso all’amore, ma un requisito che garantiva le condizioni di sopravvivenza. Attraverso la gelosia, infatti, il maschio, che ha sempre considerato il corpo della donna come una sua proprietà, si tutelava dal rischio di allevare figli non suoi, mentre la donna, grazie alla gelosia del maschio, garantiva per sé e per la sua prole cibo e sicurezza. Sarà vero, ma poi sicuramente la sua natura è cambiata perché altrimenti ancora oggi questo sentimento dovrebbe trovare più posto nelle società povere, nelle economie di sussistenza, mentre invece si allarga a tutti i ceti sociali.

A complicare il quadro c’è il fatto che alcuni gelosi indirizzano la propria ostilità contro il partner e altri contro il rivale. Molti psicologi, tra cui soprattutto Freud, hanno tentato di analizzare questo sentimento andando a collocarne quasi sempre la nascita tra i piccoli o grandi traumi dell’infanzia, ma a noi, più delle cause interessano le conseguenze, anche culturali, che, in molti luoghi e in molte epoche hanno portato e portano a conseguenze degradanti per le donne, come l’accertamento della verginità, o le pratiche crudeli di mutilazione dei genitali femminili, in una sorta di odiosa gelosia preventiva.

È una specie di “cannibalismo sentimentale”, che vuole divorare l’essere amato affinché nessuno possa più sottrarcelo, e che, quando si esce dall’ambito metaforico, diventa violenza, anche omicida. E così, di quello che una volta era un grande amore, rimane soltanto un titolo di cronaca con foto della vittima, magari sorridente, e ancora ignara di quello che le accadrà. Si è voluto suggellare con il nulla la fine di un amore. E non sono rari i casi in cui la follia rende anche tanto orgoglioso del suo misfatto l’assassino da farlo autoaccusarsi subito, cercando quella che lui considera una gloria, su Facebook, o su altri social.

Se la gelosia, comunque, è motivata, allora arriviamo al tradimento che offende chi è tradito, ma ravviva, in chi tradisce, la fiducia in se stesso. Il vero problema, però, è che non esiste tradimento se non all’interno di un rapporto d’amore. A tradire infatti non sono i nemici e tanto meno gli estranei, ma i padri, le madri, i figli, i fratelli, gli amanti, le mogli, i mariti, gli amici. Solo loro possono tradire, perché è su di loro che un giorno abbiamo investito il nostro amore.

E non importa neppure quale sia l’oggetto d’amore: un uomo, una donna, un amico, la famiglia, la Chiesa, la legge, i rapporti con i nostri simili e persino il rapporto con Dio. A riguardare i nostri sacri testi, troviamo molti tradimenti: Adamo cacciato dal paradiso terrestre, Giobbe tradito da Dio, Mosè a cui è negato l’ingresso nella Terra promessa, Gesù tradito da Giuda e lasciato dal Padre a morire sulla croce («Elì, Elì, lammà shabctani» (Dio, Dio, perché mi hai abbandonato?). Tutti rinviano a uno scenario simbolico in cui forse neppure Dio vuole che l’uomo cresca in una fiducia incondizionata, perché in questo tipo di fiducia totale non offre la coscienza del bene e del male.

Mentre, invece, il male bisogna incontrarlo, e talora lo si trova proprio dove neppure lontanamente ne sospetteremmo la presenza. Nella fiducia originaria, come in quella dei bambini, infatti, non c’è traccia del male, anzi neppure il sospetto, perché quando la realtà non appare nel suo doppio, non nasce il dubbio. E ancora una volta l’etimo si rivela un prezioso alleato perché va notato anche che «doppio» e «dubbio» hanno la stessa radice, cosa che appare ancora più evidente in tedesco con “zwei” (due) e “Zweifel” (dubbio). Il dubbio, insomma, quello che spezza la fiducia originaria, nasce come duplice aspetto, come doppia essenza di ogni realtà.

Cartesio può sconfiggere il «diavoletto maligno» che gli insinua dubbi nella mente e può superare il dubbio solo perché lo affronta basandosi su quel «cogito», quel “penso”, che giustifica e dà sostanza all’«ergo sum», all’esistenza di ognuno di noi. E anche in questo il concetto di doppio balza in evidenza in quanto la parola “diavolo” deriva da “dia-bállein”, che significa “divaricare”, riferito alla coscienza, dilaniata tra il bene e il male, tra il vero e il falso, ma soprattutto dall’allontanamento da quell’epoca giovanile e felice in cui tutto era buono, bello e giusto e la fiducia era una costante naturale.

Se esaminiamo le possibili reazioni al tradimento, all’opposto di quella, umanamente molto difficile, del perdono, per prima cosa troviamo la vendetta, che è una risposta emotiva che salda il conto e, se è immediata non ha altro significato se non quello di scaricare una tensione, mentre se è procrastinata imprigiona in fantasie di astio e crudeltà. La vendetta, insomma, rattrappisce l’anima. E lo si vede anche, se non soprattutto nelle vendette praticate tramite i social in cui immagini di momenti di amore vengono pubblicate trasformandole in pornografia e, quindi, in spietate accuse di immoralità che il vendicatore immagina si rivoltino soltanto contro l’ex amato e non anche contro se stesso che evidentemente si ritiene, in quanto presuntamente offeso, al di sopra di ogni giudizio morale altrui. E la violenza di questo gesto informatico non è inferiore a quella che avverrebbe con un vero contatto fisico, in quanto non di rado porta al suicidio di chi non resiste alla vergogna di sentirsi esposta alle critiche di presunti benpensanti molto più capaci di stigmatizzare peccati di tipo sessuale che peccati contro le persone.

C’è poi il meccanismo della negazione del valore dell’altro che prima era stato idealizzato. Si passa infantilmente dall’amore cieco al cieco odio. Più pericoloso è il cinismo, che non solo nega il valore dell’altro, ma addirittura quello dell’amore e si finisce per ridurre in cocci anche i rapporti che con quell’amore ferito, anzi, ormai morto, nulla avevano a che fare. La negazione di un tradimento altrui, insomma, può diventare il tradimento di se stessi e di quello che fino a quel momento si è stati.

E forse è proprio per uscire da un posticcio e inaccettabile disprezzo per se stessi che si arriva all’odio. Fin dall’antichità si è tentato di presentare l’amore e l’odio come due sentimenti che sempre si attorcigliano e si avvinghiano tra loro. Catullo, per esempio, in uno dei suoi Carmi, scrisse: «Odi et amo», che significa «Odio ed amo» e prosegue: «Perché lo faccia, mi chiedi forse. / Non lo so, ma sento che succede e mi struggo». È vero che i due sentimenti albergano nella stessa persona, ma credo mai contemporaneamente: è quando l’amore scompare e lascia spazio all’odio che si verifica la maggior parte dei crimini passionali.

Ma da dove viene l’odio? E perché raggiunge le sue espressioni più truculente proprio nelle relazioni cominciate con l’amore?

I pessimisti ritengono che gli esseri umani siano violenti per natura. Nel Seicento il filosofo Thomas Hobbes diceva che «Homo homini lupus» (L’uomo è lupo per gli uomini); più recentemente l’etologo Konrad Lorenz ha assimilato l’aggressività a una forza indomabile come la fame, che è utile per la sopravvivenza, per la difesa del territorio, per assicurare un vantaggio sessuale al più forte, per fornire una base alla nascita di una leadership. E, infatti, se non ci sono guerre da combattere abbiamo bisogno di sport competitivi per esprimere la nostra aggressività, se non abbiamo nemici evidenti dobbiamo crearcene di fantastici.

Gli ottimisti, dal canto loro, ritengono che gli esseri umani siano per natura, se non proprio amorevoli, senz’altro socievoli, per cui l’aggressività non scaturisce dal nostro interno, ma ci contamina dall’esterno. Così la pensava Jean-Jacques Rousseau, secondo il quale gli uomini sono buoni per natura e diventano cattivi vivendo in società, come risposta alla frustrazione delle loro intenzioni, per natura benigne.

In ambito sociale, vista con gli occhi di Hobbes, l’aggressività è l’espressione inevitabile del desiderio umano di potere e di dominio e l’amore è solo un breve interludio di pace nelle relazioni naturalmente bellicose. Vista con gli occhi di Rousseau è la risposta alla frustrazione che si estrinseca nella povertà, nell’indigenza e nell’impotenza, frustrazione che, però, può essere lenita proprio con la vicinanza, non soltanto fisica, di altri esseri umani.

Ma in amore la questione non è tanto quella di stabilire se l’aggressività è innata, o reattiva, se è una pulsione autonoma, o è una risposta alle minacce. Le cose sono più complicate, perché in amore la posta in gioco non sono il potere, il denaro, il successo. In amore la posta in gioco siamo noi, noi che amiamo. E l’aggressività è il riflesso dello stato di pericolo in cui versa chi ama. «Quando diventa oggetto del mio desiderio – scrive acutamente Galimberti – la persona amata acquista un potere enorme su di me, e la mia vulnerabilità è direttamente proporzionale alla profondità del mio amore. Anche se non sembra, questa è la storia di ogni serial-killer che uccide le donne perché queste hanno un potere su di lui. Esse, infatti, eccitano il suo desiderio e quindi, ai suoi occhi, detengono il potere sulla sua gratificazione, o sulla sua frustrazione. Vendicandosi, il serial-killer vuole capovolgere la situazione, vuole recuperare la sua dignità. Anche se non siamo dei serial-killer, quando in amore odiamo mettiamo in moto la stessa macchina».

Insomma, bisogna fermarsi prima che l’odio diventi patologia, prima che si trasformi in follia. E qui torniamo a Platone, ma con l’avvertenza che non bisogna leggere Platone in modo “platonico”, cioè ascetico, edificante, diciamo così, “cristiano”. Platone non assimila la mortificazione del corpo alla mortificazione dei piaceri, delle passioni, della sessualità. Platone guarda più in alto, alle regole della ragione e agli abissi della follia e si chiede – e ci chiede – cosa con esse l’anima riesca, o non riesca, a dire. Ed è dove il dire si interrompe che si apre il buio panorama della follia che spesso trae origine dalla coscienza che il possibile supera in maniera eccessiva il reale.

Ed è curiosa, non solo perché mitica, la storia che Platone ci racconta per spiegare l’esistenza dell’amore. «L’antica nostra natura non era la medesima di oggi», dice il filosofo. In principio gli uomini erano l’uno e l’altro, la loro forma era intera e rotonda, «non generavano per reciproca unione, ma per unione con la Terra». Un giorno Zeus, volendo castigare l’uomo senza distruggerlo, lo tagliò in due. Da allora «ciascuno di noi è il simbolo di un uomo» in cui una metà cerca l’altra metà, il simbolo corrispondente. Per curare l’«antica ferita», Zeus, dopo averla inflitta, inviò Eros, Amore che, tra gli dei è l’amico degli uomini, il medico, colui che può ricondurci all’antica condizione. «Ed è cercando di far uno ciò che è due – dice Platone – che Amore cerca di medicare l’umana natura. Da allora gli uomini si congiungono tra loro e così generano, non più per unione con la Terra, ma per unione reciproca. Mediatore fra gli uomini e gli dei, Amore interviene al limite dell’umano, là dove la nostra storia è cominciata e ancora ci vive dentro come follia rimossa. Chi riesce a toccare questa follia ci affascina e induce in noi quel progressivo cedimento di noi stessi che rende possibile la liberazione dell’antica follia e la realizzazione dell’amore.

È così che Platone erge Amore a simbolo della condizione dell’uomo, «a cui, però – sottolinea – non è concesso distogliere l’occhio dal proprio taglio». Ed è questa è la ragione per cui Amore non è soltanto vicenda di corpi, ma è anche traccia di un’antica lacerazione, e quindi continua ricerca di quella pienezza, in cui ogni amplesso è memoria ma anche tentativo, sconfitta ma anche vittoria, gioia ma anche ferita.

Ed è proprio dentro ogni essere umano che si può trovare la forza per non usare più il pronome “io”, ma per utilizzare quel “noi” che è la chiave necessaria per entrare nel mondo di un amore che non sia possesso, ma che tenda al bene dell’altro. Del resto, Erich Fromm, ne “L’arte di amare”, scrive: «L’amore immaturo dice: “Ti amo perché ho bisogno di te”. L’amore maturo dice: “Ho bisogno di te perché ti amo.”».

Se ci pensate, quello che si imputa al traditore è di essere uscito dal noi, di essere diventato diverso e di muoversi non più in sintonia, ma da solo.

Ebbene, dopo tutte queste parole, queste elucubrazioni e queste escursioni nelle idee, nei ragionamenti e negli scritti di chi sull’amore ha pensato a lungo, possiamo dire di saperne di più? Pur con la grande differenza di anni e di esperienza, che dovrebbero aiutarci a sbagliare di meno, a rendere meno dolorose le nostre illusioni e, soprattutto, a renderci capaci di capire le necessità della persona amata e a soddisfarle, pur con tutto ciò, sappiamo forse amare meglio di un bambino? Assolutamente no: anche un bimbo nato da poco ne sa, istintivamente, esattamente quanto ne sappiamo noi perché l’amore è qualcosa di assolutamente terreno e, insieme, di terribilmente soprannaturale. E, infatti, lo sforzo di trovare un punto di unione, un massimo comun divisore, tra tutti i vari tipi di amore si è rivelata nei secoli un’impresa filosofica che, come difficoltà, potrebbe essere paragonata, in fisica, alla ricerca dell’unificazione delle forze.

Ma se, come il bambino, non sappiamo cosa bisogna fare, noi adulti sappiamo benissimo, invece, cosa non si deve fare per evitare di ferire un amore, o, addirittura, di ucciderlo. E se, invece, lo facciamo, non abbiamo scuse.

Senza mai dimenticare, poi, che la violenza non è soltanto fisica, ma può essere anche verbale e psicologica. E che, a questo proposito, quando noi uomini condanniamo senza mezzi termini i maltrattamenti altrui, molto probabilmente la maggior parte delle nostre mogli può pensare, con ragione, che predichiamo bene, ma razzoliamo un po’ male. E per questo credo davvero che da parte nostra, da parte maschile, ci sia un dovere di scuse individuali, oltre che di quelle di genere.

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