martedì 16 gennaio 2018

Cinquant’anni dopo

Il Sessantotto, in realtà, è cominciato qualche anno prima del ’68. Il 16 giugno 1962 il primo manifesto programmatico della contestazione studentesca, quello di Port Huron, negli Stati Uniti, diceva: «Siamo figli della nostra generazione, cresciuti nel benessere, parcheggiati nelle università, e guardiamo al mondo che ereditiamo con sconforto». Eppure in quel momento l’Occidente era la parte più ricca e libera del mondo, quasi tutti potevano mangiare tre volte al giorno e quasi ovunque c’erano diritto di voto e libertà di espressione. La possibilità di studiare era cresciuta, e anche per i figli degli operai si erano aperte, finalmente, le porte dell’università. Eppure i giovani percepivano una crescente puzza di marcio che proprio nel ’68 si sarebbe materializzata in guerre crudeli in Biafra oltre che nel Vietnam, in odi razziali e omicidi politici come quelli di Martin Luther King e di Robert Kennedy, in stragi di Stato sulla piazza delle Tre culture a Città del Messico pochi giorni prima dell’inizio delle Olimpiadi in cui Tommie Smith e John Carlos, alla premiazione dei 200 piani olimpici, protestano con il pugno destro alzato, nel segno dei Black Panthers, contro la segregazione razziale, in rivoluzioni pacifiche e repressioni armate a Praga. In California e Francia esplosero contestazioni che si estesero a quasi tutto l’Occidente e fecero di quell’anno un vero e proprio discrimine tra il prima e il dopo.

Per l’Italia, poi, non si può dimenticare che il ’68 è arrivato dopo il Concilio Vaticano II che ha stravolto, molto più del pensabile, il mondo. Un Concilio che è stato accompagnato dalla Mater et magistra, dalla Pacem in terris e dalla Populorum progressio, tre encicliche gigantesche che sono andate a incidere profondamente nel vivere sociale ancor più che nel campo religioso e nelle quali il Sessantotto ha affondato fortemente le radici con quelli che erano chiamati “i cattolici del dissenso” che operarono assieme a coloro che di preti neppure volevano sentir parlare, dando vita con loro a una specie di compromesso storico ante litteram che appassì per la contrarietà di entrambe le istituzioni – Chiesa e Partito Comunista – tra le quali i giovani erano convinti che ci fossero profondi tratti sociali comuni.

Ma sarebbe sbagliato soffermarsi su un aspetto soltanto di quell’esperienza perché non c’è stato un unico Sessantotto come non c’è un’unica verità cui conformarsi. È stato un movimento tanto vasto e diversificato che sarebbe assurdo soltanto pensare di poterlo spiegare, soprattutto a coloro che per motivi anagrafici non hanno potuto viverlo, in un articolo. Credo, insomma che, più che del Sessantotto, sia più utile parlare del dopo ’68 e del perché alcuni dicano: «Avevamo ragione, ma abbiamo perso». È vero, ma solo in parte.

Avevamo tra le mani un tesoro e ce lo siamo lasciati scippare, o comunque abbiamo lasciato che lo rovinassero. Pensateci: alcuni hanno portato avanti con coerenza le loro idee contribuendo al progresso generale; ma altri si sono uniformati rapidamente al comportamento di quelli che vivevano nei posti dove si esercita il potere. Altri ancora hanno estremizzato pensieri e sentimenti, sbagliando nello scegliere il vicolo immorale e cieco della violenza; mentre non pochi, da implacabili contestatori, sono diventati abili approfittatori. E altri si sono disinteressati di tutto. Infine, ci sono i peggiori, tra i quali anch’io: gli schizzinosi, quelli che hanno continuato a nutrire sommessamente ideali e a essere consci che l’attività politica e sociale è fondamentale per cambiare il mondo, ma che, per timore di sporcarsi le mani con i politici, hanno preferito starsene fuori. Se gli altri sono stati colpevoli del peccato di opere, questi si sono macchiati di quello di omissione, il più grave di tutti.

Eppure è stato proprio sull’onda del Sessantotto che si sono fatti enormi passi in avanti scuotendo un’intera società che sembrava fossilizzata e immobile: per l’Italia è stato grazie ai mutamenti indotti dal Sessantotto che si è arrivati al divorzio, all’aborto, al nuovo stato di famiglia, a qualche progresso verso la parità dei sessi, a quello Statuto dei lavoratori che, a vederlo oggi, ci fa capire quanti passi indietro siano stati fatti da allora. Si potrebbe dire che il Sessantotto è stato una sorta di esplosivo che ha spazzato via tutta una serie di sovrastrutture dannose più che inutili, ma che non si era ancora maturi per maneggiare e che ci è parzialmente scoppiato tra le mani.

L’unica vera sconfitta prende corpo e diventa innegabile se guardiamo il panorama politico che ci circonda. Nel ’68 si facevano assemblee non per fare bella figura in pubblico, ma per scambiare idee, trovare punti di accordo e disaccordo, riuscire a convincere gli altri, per fare politica nel senso vero del termine. E oggi sentiamo giovani che si vantano di non avere mai avvicinato la politica.

Nel ’68 sapevamo che una democrazia non si fonda sulla forza della maggioranza, ma su quella del dissenso, perché la maggioranza non può decidere tutto per tutti; non può essere garante di se stessa. Il suo compito principale deve essere quello di non togliere alle minoranze la possibilità di parlare, discutere, influire. E oggi sentiamo parlare di governabilità.

Molte cose riesco a capire, ma non davvero come la nostra generazione possa scusarsi per non essere riuscita a trasmettere ai ragazzi il concetto che la politica non è cosa di cui vergognarsi; che l’onestà è il requisito minimo, ma che servono sempre anche cultura e competenze.

E lasciatemi dire che, anche a distanza di cinquant’anni, sentir parlare di “reduci del Sessantotto” è inaccettabile: i reduci sono coloro che hanno finito di combattere, mentre, invece, c’è ancora molto per cui darsi da fare , per portare avanti le proprie idee; anche se sempre più sembra di correre su uno strato di melassa vischiosa. Continuare a impegnarsi è l’unico modo per sperare che un giorno si potrà finalmente rispondere «No!» alla drammatica e bruciante domanda di padre Turoldo: «Sperare sarà sempre uno scandalo?».

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