martedì 12 dicembre 2017

Il voto futile

Rinverdendo una tradizione che ben si sposava al sistema elettorale maggioritario, ne parlano in molti. Il cosiddetto “voto utile”, è invocato soprattutto da Renzi che avverte minacciosamente gli elettori orientati a sinistra che «ogni voto dato a Liberi e uguali sarà un voto dato alla destra, o ai Cinque stelle». Ma lo usano abbondantemente anche Berlusconi che si richiama al “voto utile” per accreditarsi come unica diga, anche all’interno della sua stessa attuale coalizione, capace di bloccare i grillini, e Salvini. E lo invocano con convinzione anche gli stessi seguaci di Grillo che puntano, invece, a tentare di mettere insieme un tale numero di seggi da rendere obbligatoria la loro chiamata al colle.
Ora appare del tutto evidente che ogni voto sarà sicuramente utile per chi lo riceverà, ma è altrettanto certo che questa sua caratteristica svapora fino a scomparire totalmente per gli elettori, a meno che la cosiddetta “utilità” e la convinzione politica non indirizzino contemporaneamente verso la medesima casella da barrare. Anzi, se questo non avviene, il voto è talmente poco utile da diventare “futile”, cioè – come recita il vocabolario Treccani – di scarsissima importanza e serietà.

Dicevo all’inizio che il “voto utile” nasce con il sistema elettorale maggioritario e corrisponde a un voto dato al candidato che si ritiene possa vincere invece che al candidato più gradito. Ma non si può dimenticare che questa volta i due rami del Parlamento saranno eletti con una legge che, oltre che essere per due terzi proporzionale, sembra disegnata apposta per allontanare ulteriormente i cittadini dalla scelta diretta di chi dovrebbe rappresentarli per rendere effettiva la loro delega, e che, in queste condizioni si finisce per votare per il partito e non per il candidato, cosa che, invece, sarebbe stata possibile, se la fertile fantasia di Rosato avesse accettato quel “voto disgiunto” proposto da più parti, ma inesorabilmente affogato nel cupo mare delle fiducie.

Chi invoca il “voto utile”, poi, non si rende conto che il modo dissennato di fare politica di questi ultimi decenni, portati avanti nel segno della cosiddetta “governabilità” e del decisionismo del capo, ha prodotto disastri difficilmente curabili: molti, sentendosi “inutili”, si sono allontanati non soltanto dalla politica attiva, ma addirittura dalle urne, mentre quelli che sono rimasti sono diventati degli estremisti. E non pensiate che io stia parlando soltanto di attivisti dell’ultradestra, o dell’ultrasinistra: gli estremisti oggi sono anche di centro, perché il senso di lontananza e di rifiuto non soltanto per i più lontani, ma anche per i più vicini, ha finito per rendere estrema qualunque posizione, anche quelle che la vulgata comune definiva “moderate”. E così l’ossimoro “estremisti di centro” non strappa più sorrisini, ma descrive una realtà davvero esistente. E questo avrà effetti non soltanto sulle elezioni, ma anche su quello che accadrà dopo in quanto sarà estremamente difficile che gli attuali partiti riescano a dare vita a coalizioni di governo alle quali non sono più abituati e che, dopo aver demonizzato chiunque altro, non sarebbero più capaci di gestire senza perdere la faccia e la simpatia degli elettori loro rimasti.

Ma, oltre a essere “futile” perché “di scarsissima importanza”, il teorico “voto utile” è ancor più pericoloso in quanto è “di scarsissima serietà”. Al cittadini si dice, infatti, di non votare per coloro che si impegnano a portare avanti le idee sociali e politiche dell’elettore steso, ma per coloro che sono “i meno peggio”. E così facendo si induce nel corpo elettorale, oltre alla rabbia per un evidente ricatto psicologico, non la delusione, ma la disperazione perché nessuno in queste condizioni spera più che la situazione possa cambiare, che, come accadeva una volta, possano più diventare reali alcune di quelle che vengono chiamate utopie, che il nome democrazia abbia ancora il significato etimologico di potere del popolo e che non nasconda, invece, autoritarismi di vari colori, forze, orientamenti.

Pietro Grasso ha detto che l’unico voto utile «è quello che costruisce la rappresentanza democratica, le idee, i valori, i programmi e le speranze portando in parlamento i bisogni e le richieste di quella metà di Italia che non vota». Niente da eccepire, ma se qualcuno mi chiedesse quale può essere un voto utile, preferirei lasciare la scelta della definizione a quei quattro milioni di italiani che hanno contratti di lavoro – i cosiddetti “fast Job” – di una durata che va dal giorno ai tre mesi e che le uniche cose che hanno a tempo indeterminato sono la sottrazione di dignità, la fame, il disagio, la paura per il futuro, l’impossibilità di curarsi. Ed estenderei la domanda anche a quegli altri ultimi che, incredibilmente, possono stare anche peggio. Tutto quello che non è utile a loro, per una comunità nazionale è soltanto futile.

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