lunedì 9 ottobre 2017

Eppure ius vuol dire diritto

Talvolta restiamo talmente affascinati dalle parole da non accorgerci che con quelle stesse parole ci stanno turlupinando. A dire il vero, quando ci siamo resi conto che la dizione “ius culturae” era stata coniata per rendere meno sgradevole il concetto di “ius soli” alla destra e ai grillini, avremmo dovuto immediatamente subodorare la fregatura, ma, come spesso accade, a farci cadere in trappola è stata la fretta e la rinuncia a dedicare una congrua quantità di tempo alla riflessione prima di esprimere un giudizio, o anche soltanto a indagare meglio sul perché abbiamo provato quell’istintivo fastidio iniziale.

Perché il cosiddetto “ius culturae”, spesso citato dal ministro Minniti, dietro un’apparente gradevolezza legata al fatto che “ius” significa diritto, è, in realtà, un concetto molto più indigesto di quelli dello “ius soli”, o dello “ius sanguinis” che indicano, rispettivamente, il diritto di cittadinanza che è legato al luogo dove si nasce, o quello che discende dai genitori. Non solo è totalmente alieno a un pensiero pur vagamente di sinistra, ma addirittura, se ci si pensa bene, fa accapponare la pelle in quanto ridesta memorie terribili che non vorremmo mai che tornassero a diventare realtà.

Lo “ius culturae”, infatti, non può non chiamare in causa un’altra parolina pericolosissima: “identità”, che etimologicamente discende dal latino “idem”, proprio quello, da cui deriva anche l’italiano “identico”, che indica tutto quello che è perfettamente uguale all’originale. Quindi, se si dà per assodato quel “modello base” nel quale la vulgata più diffusa identifica l’italiano, questo vuol dire che ha la sua stessa identità soltanto chi parla la stessa lingua, professa la medesima religione, ha un uguale colore della pelle, si riconosce nella stessa storia, si riferisce a basi culturali coincidenti, mangia seguendo abitudini simili, e così via.

Ne discende, come ovvia conseguenza, che se tutte queste caratteristiche dovessero essere sottoposte a esame, anche molti di quelli che oggi sono italiani perché lo testimoniano i loro genitori, italiani a loro volta, vedrebbero messa a forte rischio – anche soltanto per la lingua e per la cultura – la loro cittadinanza italiana. Nessuno, infatti, potrebbe essere tanto italiano, tedesco, inglese, francese, ungherese, o quello che preferite, da poter sfuggire a un superbo e puntiglioso esercizio della negazione.

Allora appare chiaro che il vero problema non è che molti potrebbero restare esclusi, ma è che tutti noi potremmo restare esclusi, a seconda di chi decide quale sia la cultura, la lingua, la religione, l’ascendenza alle quali fare riferimento.

Inoltre, la storia – italiana, europea e mondiale – ci fa ricordare che ci sono state ciniche, violente e sanguinarie esclusioni basate anche sulla mancanza di una sola di queste identità.

E, a proposito di Europa e dell’assurdità di voler fissare un’ancor più complicata “identità europea”, ricordo che in una di quelle splendide serate di arricchimento culturale, sociale e religioso che accompagnavano le prime edizioni della mostra di Illegio, discutendo con il cardinale Paul Poupard, allora presidente del Pontificio consiglio per la cultura, e con il professor Tomas Halik, allora consulente del presidente ceco Vraclav Havel, sulla richiesta vaticana di inserire nello Statuto europeo una sottolineatura sull’anima cristiana dell’Europa, dopo aver ricordato che il nostro continente «oggi, oltre ai cristiani contiene milioni di ebrei, musulmani, buddhisti, induisti, animisti e altri, ma anche persone che non credono in alcun Dio, ma nelle tecnologie, o nelle ideologie, o anche nell’onnipotenza del denaro», ebbi a dire che «è ben vero che l’anima europea è del tutto incomprensibile se non si fa riferimento al cristianesimo, ma che la sua complessità e la sua ricchezza sarebbero ben difficilmente comprensibili anche senza la filosofia dei greci e il diritto dei romani, senza l’arte del rinascimento, il pensiero dell’illuminismo, l’innovazione sociale della rivoluzione francese, l’utopia marxista, gli estremisti ideologici violenti e assortiti; purtroppo anche senza la piaga dei nazionalismi e dei razzismi che ancora di tanto in tanto tornano pericolosamente a galla. Insomma, le radici cristiane hanno, secondo me, ovvio e pieno diritto di cittadinanza nell’anima europea, ma la loro presenza non può essere “ad escludendum”, rispetto a chi cristiano non è, bensì deve avere lo scopo di portare la propria grande ricchezza ad accumularsi con le ricchezze che portano anche gli altri a creare un patrimonio che può essere preziosissimo, per profondità e moderazione, per tutto il resto del mondo».

Sentir parlare oggi dello “ius culturae” e per di più da parte di un cosiddetto esponente del centrosinistra, è un’ulteriore dimostrazione che l’attuale politica non ha più valori, ideali e punti di riferimento. E che, se non li recupererà al più presto, i rischi per il futuro saranno davvero terribili.

Non possiamo non renderci conto che quello di “identità culturale” è un concetto pericoloso e che, visto che siamo tutti diversi, quello di “identità collettiva” altro non è che un artificio semantico truffaldino, fittizio e non reale. E, allora, se l’identità nasce per dividere, per unire non si può non fare riferimento al concetto di appartenenza, a una specie di “ius voluntatis” che si esercita decidendo, o meno, di essere obbedienti e ossequienti alle leggi e alle regole che una società si è data.

E allora riacquisterebbero il loro posto e peso reali anche la parola “confine” che è quella linea che mette a contatto (“cum”) noi e gli altri, e la parola “frontiera” che indica, invece, che dalle due parti di quella linea immaginaria si fronteggiano entità non soltanto diverse, ma che vogliono sopraffarsi a vicenda.

E se uno è davvero di sinistra, caro ministro Miniti, non parla di “ius culturae” e, quindi, di identità, ma di condivisione. Non parla di frontiere che separano, ma di confini che invece attraversano fruttuosamente tutta la società e, uno per uno, tutti noi stessi, che anche di contraddizioni siamo fatti.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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