venerdì 1 settembre 2017

La spinta al voto utile

Con il ritorno alla ribalta del “voto utile” («Votate per noi, altrimenti vincerà Grillo, o la destra»), si è sentito spesso usare il termine “tragedia” nel caso dovessero, appunto, andare al potere – a Roma, a Palermo, a Trieste, o in qualunque altro posto – Grillo, o Salvini e compagnia. Detto che, a mio modo di vedere, un voto sarebbe utile se a vincere fosse un centrosinistra di fatto e non soltanto uno che si autodefinisce tale, è il termine “tragedia” che sollecita un ragionamento politico su come perdiamo contatto con i reali significati delle parole e, quindi, con la realtà dei fatti.

A dire il vero, la parola tragedia ha già indicato svariate situazioni diverse: dai canti che, come l’etimologia più accreditata indica, gli antichissimi greci eseguivano durante i riti dionisiaci, si è passati al nobile genere teatrale intriso di lutto e sventura reso immortale da Eschilo, da Sofocle e da Euripide. Riportato in auge e modernizzato, con cupezza e violenza, da Shakespeare, è stato esplorato da tantissimi tragediografi in varie lingue, fino a riperdere il tono di sacralità e tornare quasi alle origini, visto che il lessico comune indica come “tragedia” qualsiasi intoppo, o evento sfortunato, dal ritardo causato dalla foratura di una gomma, alla retrocessione della squadra per cui si fa il tifo.

n questo caso, però, interessa mettere in rilievo la profonda differenza che passa tra la tragedia greca e quella shakespeariana. Gli eroi di Sofocle, come Edipo, Antigone, Aiace, in genere non sono personaggi malvagi come spesso sono, invece, quelli del bardo, come Macbeth, Riccardo III e altri ancora. Ma i greci mai avrebbero potuto capire cosa ci potesse essere di tragico nella morte di un malvagio, perché il castigo per una condotta immorale era giusta. Il dramma, semmai, sarebbe insorto se la colpa fosse rimasta impunita.

Al contrario della maggior parte di quelle moderne, la tragedia greca trova vita, invece, nella contrapposizione tra due forme diverse di bene, o, almeno, di legittimità. Antigone, per esempio, non ha nulla di malvagio e la tragedia prende vita nel momento in cui l’eroina di Sofocle, andando contro le leggi di Tebe e richiamandosi a quelle degli dei, esige che sia data sepoltura al fratello Polinice, pur ritenuto colpevole di tradimento. Neanche il novello re Creonte, però, può essere accusato di malvagità in quanto, signore della polis, incarna una legge che non può ammettere eccezioni, pena lo sgretolamento dell’ordine costituito. Oggi si potrebbe obiettare che il signore di Tebe, agendo per far rispettare l’ordinamento pubblico, operava anche per far rispettare se stesso, visto che in quei tempi leggi e re inevitabilmente coincidevano. Anzi, la figura del re non si allontanava troppo neppure da quelle degli dei. Però, sta di fatto che Creonte mette in pratica la stessa condotta tenuta da Socrate che, davanti alla condanna a morte, rifiuta una possibile evasione per non incrinare l’autorità dello Stato.

Da tutto ciò non possono non derivare alcune considerazioni di grande importanza.

La prima è che, sia rispetto ai tempi di Sofocle, sia a quelli di Shakespeare, la grande differenza in quelle che oggi definiamo tragedie è che manca la passione. Esiste ed è ben vivo il concetto di utilità personale, o di gruppo, ma soltanto raramente appare l’idea che sia doveroso battersi per valori in cui si crede, per il bene generale e non soltanto di pochi.

La seconda è che sembra che abbiamo perduto completamente di vista un insegnamento tramandatoci dai greci e segnatamente da Sofocle che è stato il primo a sottolineare che il tragico, in una democrazia, consiste nell’incapacità di ascoltarsi a vicenda e che, cioè, tra persone che hanno le loro ragioni, la tragedia comincia quando tutte le parti in causa, sorde a ogni ragionamento, reclamano l’assoluto rispetto della totalità dei propri convincimenti, anche se molte voci diverse – quasi una specie di coro greco – le mettono in guardia dal perseguire, fino all’inevitabilmente tragica conclusione, il proprio obiettivo; quasi fosse l’incarnazione di una verità assoluta che tutti sanno appartenere soltanto agli dei e che forse può essere appena sfiorata dagli uomini.

A una lettura distratta potrebbe sembrare che Sofocle affermi che il dialogo debba essere praticato sempre e comunque, ma, valutando il tutto con più attenzione, appare chiaro che il tragediografo greco sottolinea come debbano esserci dei limiti oltre i quali il dialogo non può allungarsi; e non per scelta di superbo orgoglio, ma proprio perché le posizioni sono totalmente divergenti e chiaramente inconciliabili. Qualche esempio attuale, oltre quello antico tra Antigone e Creonte? Non ci può essere dialogo tra accoglienza e razzismo, né tra uguaglianza e censo; oppure tra predominanza del lavoro, o della finanza; tra tassazione progressiva, o teoricamente uguale per tutti; tra sanità e scuole che non discriminano tra ricchi e poveri e altre che privilegiano soltanto chi se lo può permettere; tra la ricerca di alleanze soltanto per vincere, o per far perdere gli altri, e l’ideale di operare insieme a coloro che hanno valori simili ai propri. Come una volta non poteva esserci mediazione tra laicità e confessionalismo. Sono tutte scelte tra tesi che, a seconda dei propri valori, uno può considerare legittime, ma che non possono non portare a scontri che prevedono un vincitore e uno sconfitto; che non deve essere sempre e comunque il popolo.

A questo punto, se si richiede un voto utile per alleanze di grande spericolatezza, lo si può sicuramente fare, ma si tratta di vedere e capire per chi quel voto sarà utile. Se soltanto per qualche gruppo, o per l’intero Paese.

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