giovedì 15 dicembre 2016

Il rosso e il rossore

In questo governo – come, del resto, in quello precedente – non manca soltanto il rosso, inteso come ormai negletto colore emblematico della sinistra, ma manca anche quel rossore che è la tipica reazione somatica che svela la vergogna. E non perché siano i vasi capillari delle guance dei ministri a essere insensibili agli stimoli di un cervello che entra in crisi perché si rende conto di aver fatto qualcosa che non andava, ma in quanto è proprio la vergogna a mancare.

«O vergogna, dov’è il tuo rossore?», faceva dire ad Amleto William Shakespeare. E, a dire il vero, il rossore sulle guance di Giuliano Poletti, ministro del Lavoro (che fatica definirlo così) appare. Ma, in realtà appare sempre, tanto che si può tranquillamente dire che dipenderà da altri fattori fisici, ma non certamente dalla vergogna. Anche perché quel colore non si è rafforzato nemmeno di una minuscola sfumatura quando – come gli succede spesso – si è lasciato scappare quello che pensa davvero: «Mi sembra che l’atteggiamento prevalente sia quello di andare a votare presto, quindi prima del referendum sul Jobs act. E se si vota prima del referendum – ha detto riferendosi alla consultazione popolare contro l’attuale legislazione sul lavoro – il problema non si pone. Diventa ovvio che per legge l’eventuale referendum sul Jobs Act sarebbe rinviato».

Infatti se le Camere venissero sciolte, com’è previsto dalla legge che regola l’istituto referendario, la consultazione sarebbe rinviata a 365 giorni dopo le elezioni, per evitare una sovrapposizione delle campagne elettorali. In caso contrario la Corte costituzionale, che l’11 gennaio si esprimerà sull’ammissibilità dei quesiti, potrebbe fissare la data del voto tra il 15 aprile e il 15 giugno.

Poi, in serata – sempre come spesso gli succede – Poletti ha tentato maldestramente di rettificare: «Le mie affermazioni non sono altro che l’ovvia constatazione che, qualora si andasse a elezioni politiche anticipate, la legge prevede il rinvio del referendum. È un’ipotesi che non ho invocato io». E, alla fine, quando si è reso conto che la sua posizione è indifendibile, ha tentato di disinnescare un problema per il governo Gentiloni assumendosi ogni responsabilità: «Le mie frasi sono una scivolata personale».

Ma è davvero difficile accettare questa tesi perché questo governo Gentiloni è troppo simile a quello precedente per lasciar ipotizzare che possa pensarla in maniera diversa su quel capolavoro di fabbrica di ulteriori disparità sociali che Renzi ha orgogliosamente annoverato tra i suoi più scintillanti successi e contro il quale la Cgil ha raccolto oltre tre milioni di firme. Ed è anche difficile credere che potrebbe avere successo una nuova campagna per non far andare i cittadini alle urne, come hanno sciaguratamente fatto Renzi e buona parte del PD in occasione del referendum sulle trivelle.

Questa volta i quesiti referendari puntano a cancellare la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e quindi la possibilità di licenziamento senza giusta causa; ad abrogare le disposizioni che limitano la responsabilità in solido di appaltatore e appaltante, in caso di violazioni nei confronti del lavoratore; e a eliminare quei voucher che hanno reintrodotto una forma di schiavitù in cui il lavoratore lo puoi comprare al tabacchino proprio per il tempo che ti serve, o anche meno, visto che puoi far apparire e far valere i voucher soltanto nel momento in cui sembra pericoloso continuare a far lavorare donne e uomini – chiamiamoli sempre così, perché il termine “lavoratori” ormai è diventato disumanizzante – in nero.

Poletti, però, ha avuto involontariamente il merito di aver riportato in primo piano gli argomenti “lavoro” e “referendum” che le polemiche sul trapasso dal Renzi al Renzi bis avevano relegato in secondo, o terzo piano. E ha fatto capire almeno due cose: la prima è che il PD renziano ha paura di una nuova debacle referendaria e che, quindi, non ha interesse a far finire la legislatura, ma, anzi, di farla concludere al più presto; la seconda consiste nel fatto che Renzi e i suoi non pensano minimamente di correggere – e potrebbero farlo in breve, almeno su alcuni punti – una legge che non ha neppure una caratteristica del pensiero di sinistra, perché di sinistra quel governo (questo governo) non è.

Davanti a queste considerazioni potrebbe sembrare che quel rossore mancante sia soltanto un dettaglio secondario nel quadro generale. E, invece, credo sia un aspetto importantissimo perché un rossore, come un pianto, non cancellano gli errori eventualmente fatti in precedenza, ma assicurano una certa dose di quell’umanità che è comunque necessaria per discutere da posizioni diverse con la speranza di incontrarsi in un qualche punto mediano della strada. Se manca anche il rossore, ci si rende conto che ci si trova soltanto di fronte a una specie di automa, a qualcuno che ritiene che il suo unico scopo – senza mai sforzarsi di pensare in proprio – sia quello di arrivare dove gli hanno detto che si doveva arrivare. E che magari, a sconfitta avvenuta, tenterà di togliersi dalle spalle le proprie responsabilità ripetendo quella frase che troppe volte ha ammorbato l’aria che respira questa umanità: «Non ho fatto altro che obbedire agli ordini».

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