martedì 7 giugno 2016

Il paradosso dei due Renzi

Come sempre, il linguaggio usato dalle persone è fortemente rivelatore della loro personalità, del loro pensiero, dei loro progetti. «Noi non siamo contenti», ha detto Renzi commentando i risultati del primo turno delle amministrative. Può sembrare del tutto normale, anzi, apprezzabile; ma, a starci attenti, ci si rende conto che per il presidente pro tempore del Consiglio l’uso della prima persona plurale non è assolutamente abituale. Normalmente dice: «Ho fatto…», «Ho voluto…», «Il mio governo…». Questa volta, invece, le frasi sono sul tipo: «Non siamo riusciti a farci capire…», «Non siamo soddisfatti…». Poi, per separare ancor più nettamente il risultato negativo dalla propria persona, annuncia che alla direzione del Pd, dopo i ballottaggi, proporrà il commissariamento del Pd napoletano, quasi che fosse stato un partito diverso dal suo a decidere che lo scandalo delle primarie andava ignorato pur di far candidare la Valente, di strettissima osservanza renziana.
In realtà Renzi ha ragione quando afferma che le elezioni locali non devono avere ripercussioni sul destino del governo nazionale, ma fa finta di dimenticare un particolare che finora, invece, aveva sfruttato fino in fondo e cioè che lui, oltre che essere presidente del Consiglio, è anche segretario politico del PD e che il PD è riuscito a non far eleggere al primo turno nessun proprio candidato sindaco nelle grandi città, neppure a Bologna; che a Napoli è rimasto addirittura fuori dal ballottaggio, che a Roma è distanziato fortemente dai 5 stelle e che se la destra si fosse presentata unita nella capitale probabilmente Giachetti avrebbe già finito la sua corsa al primo turno, che anche a Trieste il centrodestra è in forte vantaggio, che i grillini minacciano il successo dem persino a Torino, che a Milano inopinatamente la destra è riuscita praticamente a pareggiare con un PD che ha scelto un candidato inequivocabilmente non di centrosinistra.

Se, quindi, il Renzi presidente del Consiglio potrebbe dormire sonni tranquilli, il Renzi segretario del PD dovrebbe avere le notti popolate da incubi perché in altri tempi e in partiti normali un simile risultato avrebbe portato – magari attendendo le due settimane che ci separano dal ballottaggio – alla defenestrazione di chi ha guidato il partito a un simile disastro.

Ma a impedire tutto questo ci sono due cose. La prima è il fatto che di congresso si parlerà soltanto il prossimo anno. La seconda è dovuta al paradosso esistente nello statuto del PD laddove, all’articolo 3, comma 1, è scritto che «Il segretario nazionale è proposto dal Partito come candidato all’incarico di presidente del Consiglio dei ministri». Ne deriva che se Renzi dovesse lasciare a qualcun altro la carica di segretario del Partito, automaticamente sarebbe quest’ultimo ad avere diritto, secondo il PD, di salire a palazzo Chigi.

È ben vero che lo statuto non specifica se il cambio debba avvenire subito, o possa essere rimandato nel tempo, magari lasciando al Presidente della Repubblica un potere che ancora la Costituzione gli attribuisce, ma sarebbe difficile non ricordare che quando Renzi è diventato segretario, pur dicendo «Stai sereno», non ha lasciato né tempo, né spazi a Enrico Letta e gli ha sfilato, con l’aiuto di Napolitano che ha dettato forse non troppo costituzionalmente alcune sue condizioni, la poltrona di capo del governo.

Non è che tutto questo possa essere dimenticato soltanto usando per i verbi la prima persona plurale al posto della prima persona singolare.

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