mercoledì 16 settembre 2015

Cosa preferiamo perdere?


La prima scena si svolge in Inghilterra dove la straripante vittoria, alle primarie, di Jeremy Corbyn, esponente della vera sinistra del Partito Laburista inglese, provoca due immediate e opposte reazioni: la corsa alla reiscrizione al Labour di migliaia di ex tesserati delusi dal progressivo spostarsi a destra del partito che da alcuni milioni di iscritti era passato a qualche centinaio di migliaia, e le previsioni catastrofiche per i destini elettorali di Corbyn da parte di Tony Blair, da altri esponenti di punta del Labour e da politologi assortiti. Sulle prime non c'è molto da dire se non che siamo convinti che questo succederebbe anche in Italia se il PD tornasse a essere un partito di centrosinistra. Le seconde, invece, meritano una certa attenzione perché dimostrano che se la sinistra sembra svegliarsi sono in molti a preoccuparsi della cosa.

La seconda scena avviene nelle stanze in cui la maggioranza del PD afferma di voler trovare un accordo unitario con la minoranza sulla spinosa questione delle riforme costituzionali legate al destino del Senato. La senatrice della minoranza dem, Doris Lo Moro abbandona il vertice e parla di «binario morto», specificando di non voler più partecipare alle riunioni con governo e capigruppo perché «non si sta discutendo di nulla». Non solo non si è toccato l'articolo 2 ma nemmeno l'articolo 1 sulle funzioni del nuovo Senato. A stretto giro risponde l’altera Maria Elena Boschi: «Non siamo preoccupati per i numeri» e «Sono emerse differenze all'interno della stessa minoranza Pd». E poi, ossequiente si accoda l’ineffabile Ettore Rosato: «Denis Verdini – aggiunge con incredibile eleganza – ha già votato questa riforma». Intanto Renzi fa esercitare delle pressioni su Grasso che ricordano molto quelle che Berlusconi effettuava a suo tempo ritenendo se stesso molto più importante delle leggi, dei regolamenti, della democrazia. Proprio come Renzi.

Sono due scene da considerare assolutamente insieme perché hanno il merito di riportare in primo piano una domanda che da troppi anni è stata accuratamente evitata, a livello individuale e collettivo, dalla politica e, purtroppo, soprattutto dagli elettori: «Posso accettare più facilmente di perdere le elezioni, o di perdere i miei ideali e, con essi, la mia identità?».
Una domanda che corrisponde, più o meno, a quella che ci pone davanti al bivio in cui decidere se lasciarsi supinamente cambiare dal mondo, oppure, anche se le probabilità di successo non sono tantissime, se tentare di far cambiare quello stesso mondo che non ci piace troppo. Se lasciarsi annullare dalla presunta forza altrui, o lottare con la forza propria.

Perché è la prima ipotesi che le persone di sinistra e di centrosinistra stanno rischiando oggi. Alcuni preferiscono uscire dal PD e condurre la propria battaglia dal di fuori; altri preferiscono farlo dal di dentro; ed entrambe le scelte vanno rispettate, purché non ci sia rassegnazione. Sono scelte divergenti nella parte decisionale, ma partono dal medesimo presupposto che proprio in Blair trova un esempio storico indiscutibile: Blair è stato primo ministro britannico per dieci anni (gli stessi a cui punta Renzi); ha vinto, ma ha tradito le radici del suo partito realizzando politiche di destra e, così facendo, lo ha desertificato. Ora non è detto che Corbyn possa vincere al prossimo appuntamento elettorale (come Syriza in Grecia e, in parte, Podemos in Spagna), ma ha regalato di nuovo alla Gran Bretagna un vero dibattito democratico che prende finalmente il posto di un monologo neoliberista; anche se il “neo–” probabilmente è di più. Renzi sta imitando il suo maestro, ma forse noi, ammaestrati dal passato, potremmo evitare il disastro inglese.

E magari dovremmo anche renderci conto che la sconfitta della sinistra è cominciata con l’accettazione del sistema maggioritario (non è un’accusa ad altri, perché anch’io allora ho votato in maniera sbagliata) che avrebbe dovuto essere rifiutato non perché contrario agli interessi della sinistra, ma perché contrario agli ideali della sinistra che ha sempre voluto che tutti, non solo i potenti, avessero voce, ma anche peso, in capitolo.


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