sabato 18 ottobre 2014

La comandabilità

Potrà sembrare bizzarro, ma mi sto convincendo sempre di più che, al netto delle pur importanti contingenze internazionali, una delle maggiori cause della nostra crisi economica risiede nella perdita di democrazia del nostro Paese.

Cerco di spiegarmi specificando subito che di questo non attribuisco colpe soltanto a Renzi che non ha creato questa situazione, ma che la sta portando avanti e cerca di perfezionarla dando sempre più sostanza a un tipo di regime che di democratico porta quasi soltanto il nome. È da molti anni, infatti, che – con le brevi eccezioni degli esecutivi presieduti da Prodi – non si governa più, ma si comanda; che si tenta di limitare sempre più il momento democratico al solo esercizio del voto, mentre è sempre più marginalizzata la vera essenza della democrazia e cioè la discussione e la faticosa ricerca della soluzione migliore, ma anche più equilibrata, che possa aiutare più gente possibile e danneggiarne il meno possibile.

Perché la base della democrazia ha ben presente il concetto laico che nessuno possiede la verità assoluta e che, quindi, chi ha il maggior numero di voti riesce sicuramente a imporre le proprie leggi, ma anche che il possesso di una maggioranza non corrisponde al dono dell’infallibilità e che chi vince non sempre ha ragione. E infatti la democrazia prevede il cambiamento.

Da molto tempo, invece, vediamo che, o per motivazioni politiche, o per supposte necessità “tecniche”, si procede a strappi, senza aprirsi a consultazioni e discussioni, a meno che non si sappia che, o per totale assenza di obiezioni da parte di parlamentari-dipendenti, o per numeri di voti già certi a prescindere dalla discussione prima dell’inizio della discussione stessa, che il risultato sarà assolutamente scontato e aderente alla volontà del presidente del Consiglio in carica pro tempore.

E tutto questo non procura soltanto un danno diretto nel promulgare leggi che hanno in sé una quantità di errori inevitabili quando qualcuno, in nome della propria supposto infallibilità, rifiuta di confrontarsi con coloro che hanno opinioni diverse, ma soprattutto si innesca un disastro a lungo termine perché nella testa dei cittadini entra inevitabilmente il concetto che le discussioni sono inutili, che esporre le proprie idee non porta neppure all’apertura di una discussione, che è del tutto inutile partecipare e che, quindi, parafrasando il celebre «libertà è partecipazione» di Giorgio Gaber, siamo sempre meno liberi.

So che a molti sembrerà una bestemmia, ma sono terribilmente pentito di aver votato per il maggioritario nel referendum sul sistema elettorale che ha abolito quel metodo proporzionale che faceva diventare importanti anche le variazioni dello 0,5 per cento e che, quindi, rendeva molto più sensibili ai bisogni e alle opinioni della gente i vari partiti che potevano diventare o meno determinanti nella composizioni dei governi che si susseguivano a ritmi forse un po’ troppo veloci, ma che, comunque, erano capaci di portare l’Italia fuori dal disastro della guerra, di dare vita al boom economico e di portare l’intero Paese a un grado di benessere prima inimmaginabile.

Quella volta pensare e discutere era considerato un pregio e non un fastidioso difetto. Oggi anche la Boldrini, come i suoi predecessori di oltre due decenni lamenta il fatto che nel Parlamento non si parlamenti più, ma soltanto si ratifichi, a colpi di fiducia su decreti governativi ciò che si decide altrove. Oggi le Regioni protestano perché i pretesi tagli delle tasse sono, in realtà, o spostamenti delle tasse dallo Stato centrale alle amministrazioni decentrate, oppure corrispondono a forti tagli dei servizi e, dunque, a maggiori spese per i cittadini.

È da decenni che si sente parlare della necessità di governi stabili, ma, in realtà, più che la governabilità viene rincorsa – scusate il neologismo – la comandabilità.

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