martedì 19 novembre 2013

Soccorso non è protezione

Almeno diciassette morti, diversi dispersi, danni incalcolabili in una Sardegna messa in ginocchio dall’inclemenza di un clima che sta restituendo alla società gli schiaffi che l’uomo ha dato alla natura, e che può riuscire a essere così crudele anche e soprattutto per il male che l’uomo è riuscito a fare ai propri simili non soltanto non curando, ma spesso violentando un territorio che è tra i meno salvaguardati sulla faccia della terra.
Anche questi lutti mettono in luce l’incapacità della nostra politica nel riuscire a far qualcosa che sia di sostanza prima che di propaganda. E in quest’ottica, pur di rendere più gradevole la realtà, è riuscita anche a truccare il vocabolario. Un esempio che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi è quello della “Protezione civile”, organizzazione più che benemerita, ma che porta un nome completamente sbagliato. “Protezione”, infatti, deriva da proteggere, dal latino pro (davanti, e quindi prima) e tegere (coprire). Quindi proteggere vuol dire fare scudo, intervenire in anticipo e non a frittata già fatta, quando si tratta di raccogliere morti e feriti, di recuperare quel poco che non è stato distrutto, di fare i pesanti conti dei danni, di rattoppare alla bell’e meglio comunità che portano ferite tanto gravi da non riprendersi più, se non trasformandosi profondamente; e non sempre in meglio. In realtà la Protezione civile che conosciamo dovrebbe chiamarsi, più puntualmente, “Soccorso civile” e dovrebbe rimanere pronta a intervenire sui disastri perché mai l’uomo riuscirà a innalzarsi completamente sopra la natura e a evitarli del tutto; ma accanto ci dovrebbe essere una vera e propria “Protezione civile” intesa non solo come organizzazione, ma anche e soprattutto come sincera filosofia politica che possa essere messa in condizioni di lavorare per la prevenzione.
Una politica che riuscisse anche a dialogare con l’Europa – e prima ancora a ragionare con se stessa – per far capire che gli interventi sul territorio non sono spese, bensì investimenti. Basterebbe pensare soltanto a quanti danni sarebbero evitati – per non parlare del costo incalcolabile in termini di vite umane – se in Sardegna - e in Friuli c'è da preoccuparsi almeno altrettanto - si fosse fatto per tempo quello che si sarebbe dovuto fare in termini di adeguamento e pulizia degli alvei, di controlli di staticità dei ponti, di pulizia, se non di rafforzamento dei versanti.
Vien quasi da dire amaramente e paradossalmente che purtroppo la malavita organizzata non ama molto la cultura: se un boss delle varie mafie esistenti nel nostro Paese avesse ottenuto una laurea in geologia forse avrebbe pensato di guadagnare proprio con la prevenzione. E in tal caso le ruberie sarebbero state le stesse, ma il nostro Paese sarebbe stato più sicuro.
Beato il Paese che ha un ceto politico capace di rendere impossibile la nascita di certi pensieri.

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