lunedì 14 gennaio 2013

La scelta di Maran, una vera tristezza

Credo che per valutare in maniera attendibile la decisione di Alessandro Maran di dimenticarsi di essere vicecapogruppo uscente del PD alla Camera per diventare capolista montiano in regione nella corsa verso Montecitorio, utile sia non tanto guardare da dove Maran è uscito, ma dove è approdato.
Mi spiego: si può tranquillamente dire che la sua è stata una scelta difficile, perché certamente non è facile voltare in questo modo le spalle al proprio passato. Già meno agevole è sostenere che tutto è accaduto perché il PD non ha sposato il documento di Ichino che era perfettamente aderente alle idee di Monti e con il quale il PD ha sempre sostenuto – anche mentre votava la fiducia al governo dei cosiddetti tecnici – di essere soltanto parzialmente d’accordo. Del tutto impossibile da spiegare, poi, come uno che ama definirsi “democratico” possa rifiutare in toto la più elementare delle regole della democrazia: chi ha più voti vince e chi ha meno voti si mette a lavorare per far vincere al più presto le proprie idee attraverso un dibattito politico e ideale; nulla di tutto questo perché Ichino e Maran, una volta sconfitti, hanno fatto esattamente come molti bambini ancora non abituati al confronto: hanno preso i loro giocattoli e se ne sono andati via.
Inoltre non si può prescindere dalla storicizzazione del momento della scelta perché ogni azione umana non può non essere legata alla storia e alla cronaca. Per essere chiari, non si può dimenticare che Maran ha fatto la sua scelta non quando il documento Ichino è apparso immediatamente in netta minoranza, né quando la vittoria di Bersani su Renzi ha reso ancora più evidente la lontananza del PD (e – piccolo particolare – prevedibilmente della maggior parte dei suoi elettori) dalla linea di Monti sui temi del lavoro; è accaduto quando Maran, dopo aver scelto di non correre alle primarie per il Parlamento, ha realizzato il fatto che il partito non lo avrebbe recuperato con il listino dei garantiti. E lo ha fatto due giorni dopo aver detto che mai avrebbe fatto proprio ciò che ha fatto.
Sarebbe già stata difficile da capire una sua uscita per salire su un teorico Aventino e per ritirarsi da una politica che non lo capiva. Ma la cosa che appare stridente è la decisione del posto dove andare e cioè in una lista che a livello regionale punta, come capolista al Senato, su Gian Luigi Gigli, il medico che ha costruito la sua fama politica sulla strenua opposizione al lasciar morire Eluana, con una scelta che in regione ha indotto addirittura tutti quelli di Italia Futura, la Palazzetti in testa, a ritirare le proprie candidature. Una lista che a livello nazionale ha raccolto tutti i transfughi del Pdl che sentivano la loro barca affondare. Una lista che in Lombardia ha scelto di sostenere Albertini contro Ambrosoli molto probabilmente per scelte più legate al risultato delle elezioni al Senato con il premio di maggioranza localizzato che al risultato delle regionali. Ma cosa può avere in comune il Maran che si conosceva fino a pochi giorni fa con questi nuovi compagni di viaggio? Ovviamente nulla.
Poi si può dire tranquillamente che l’indignazione per il comportamento di Maran è scontata e prevedibile; che sarebbe semplicistico parlare di trasformismo; che il PD deve fare un esame di coscienza per capire dove ha sbagliato se Maran ha deciso di spostarsi più a destra. Si può dire di tutto, ma a me il comportamento di Maran appare davvero paradigmatico di come la politica – soprattutto in questi ultimi vent’anni – si sia lasciata affascinare e corrompere da smanie individualiste che hanno fatto dimenticare le regole elementari della democrazia e hanno fatto passare in secondo piano qualunque pulsione di tipo sociale anche perché con scelte simili e con i sondaggi che parlano abbastanza chiaro già da un po’ di tempo, o si è miopi nel guardare a quello che potrà succedere, oppure la cosa principale diventa far perdere il partito da cui ci si sente non considerati, a prescindere da chi si aiuta a vincere. Una vera tristezza.

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